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Saggi e Articoli

Quale Europa per la PACE, il LAVORO e il WELFARE?

Commissione Diocesana per la Pastorale sociale e del lavoro, giustizia e pace, custodia del creato

Quale Europa per la PACE, il LAVORO e il WELFARE?

Auditorium Concordia, San Vito al Tagliamento, 20 marzo 2019

 Lavoro
Quale via europea per l’economia?
Cosa accade nel mondo del lavoro?

Intervento di Luigi Lama,

Centro Studi CISL

Grazie dell’invito.

È un piacere e un onore per me essere qui con voi stasera e spero di portare un contributo utile, anche se devo ridimensionare le aspettative che potrebbe essere generate dal titolo del mio intervento

Quale via europea per l’economia? Credo che nessuna persona di buon senso possa pensare di definire “la giusta via” per l’economia europea senza rischiare di essere generico e superficiale. Per lo meno è quello che rischierei di fare io. Preferisco cogliere l’occasione di questo incontro per riflettere assieme agli altri relatori e a voi e portare un contributo riguardo al mondo in cui opero, quello del sindacato. Sono una delle persone che si occupa a tempo pieno di formazione nel Centro studi Cisl e il nostro compito è cercare di dare strumenti alla dirigenza ai vari livelli per vedere “cosa si può fare”.

Per tracciare un percorso una mappa è sempre d’aiuto. Nell’epoca della globalizzazione dobbiamo pensare ad un planisfero mondiale.

Se un extraterrestre guardasse il nostro pianeta quanti continenti vedrebbe?

Probabilmente le due America, l’Africa, l’Oceania, e poi un grosso continente che prende un bel po’ dell’emisfero nord. L’Europa, che ci sta tanto a cuore, qui sembra un’area piuttosto frastagliata ad occidente dell’Asia. Non è molto grande e non c’è nemmeno una separazione visibile con l’Asia.

Infatti ìin molti casi si parla di continente euroasiatico. Eppure l’Europa esiste. E non è stata un continente marginale.

L’Europa è un continente eminentemente culturale.

Una cultura che si è diffusa con successo in tutto il mondo con le buone e con le cattive.

Un secolo fa, alla fine della seconda guerra mondiale dominava gran parte delle terre emerse.

Fra i prodotti positivi della cultura europea c’è il sindacato. Il lavoro è un connotato di tutta l’umanità. Sappiamo che per avere il pane quotidiano occorre il lavoro di qualcuno, anche se non necessariamente il nostro.

Da alcune migliaia di anni il lavoro è prevalentemente, pur sotto varie forme, lavoro dipendente. Ma solo in Europa è stato inventato il sindacato.

Nasce con la rivoluzione industriale e la sua diffusione originaria viaggia con lei.

Oggi sono passati circa due secoli dalle prime forme di organizzazioni sindacale apparse in Gran Bretagna, poi diffusesi in Europa e nel mondo. In Italia ha messo radici circa un secolo e mezzo fa, con lo sviluppo industriale dopo l’unificazione del nostro paese.

Il sindacato è ancora una bella pianta solida. Certo non cresce più come una volta ma in Italia le tre maggiori confederazioni, la Cgil, la Cisl e la Uil dichiarano complessivamente circa 12 milioni di iscritti. Può essere una misura un po’ gonfiata dal fatto che basta essere iscritti un mese per essere contati fra gli iscritti dell’anno, ma anche se riduciamo il numero a 10 milioni significa che ogni sei persone residenti in Italia, neonati compresi, una ha la tessera di una delle tre grandi confederazioni e paga la quota regolarmente.

Non è male in un paese senza un regime che obbliga a iscriversi.

È segno di fiducia in queste organizzazioni che restano un grande strumento di coesione sociale.

Dicevamo che questa pianta ha cominciato a germogliare oltre 200 anni fa in Inghilterra e , nel nostro paese dopo l’unità d’Italia, circa 150 anni fa. Cosa ne ha favorito la crescita?

Una felice combinazione di fattori economici, politici e culturali.

Facciamo una rapida rassegna dei più rilevanti:

in una economia prevalentemente agricola e artigianale l’unità produttiva fondamentale è la famiglia, che organizza per lo più in modo autonomo il proprio lavoro; la fabbrica assume singoli individui e mostra a loro la produttività della divisione e dell’organizzazione del lavoro;

Questi tre sono elementi economici correlati. Il primo è il più rilevante, ma strettamente correlato agli altri due per quanto riguarda lo sviluppo del sindacato.

Non basterebbero però questi fattori economici se non ce ne fosse uno di ambito politico:

ci vuole libertà di impresa, ovvero una legislazione che permetta un certo grado di libertà individuale, che rompa la disuguaglianza per nascita sancita in precedenza.

Ma i fattori economici e politici sono favoriti dall’affermarsi di un mutamento culturale e a loro volta lo sostengono: se questa nuovi visione della libertà e dell’uguaglianza vale per la borghesia perché deve limitarsi ad essa?

Con la percezione cambiamento sociale si indebolisce la cultura dell’accettazione della subalternità, si afferma una cultura della

che vincono la rassegnazione che dominava per lo più nelle cultura tradizionale e che talvolta esplodeva in una ribellione connotata da desiderio di vendetta

Ma avere un glorioso passato non basta a garantire una crescita continua o, per lo meno, una tranquilla stabilità. Da un po’ di tempo a questa parte sentiamo dire che il sindacato non è più quello di una volta. E non è un apprezzamento positivo.

Qualcuno vede il sindacato condannato ad un irrimediabile declino.

Di certo nelle società a capitalismo maturo come la nostra non potrà vedere una sua crescita paragonabile a quella che c’è stata negli anni settanta del secolo scorso ma credo che il sindacato resterà a far parte del panorama socio economico dei nostri figli e anche dei loro.

Senza dubbio deve affrontare una serie di criticità. Vediamo un’altrettanto schematica rassegna, considerando sempre i tre ambiti detti prima, economico, politico e culturale.

Partiamo dal connotato principale dell’economia contemporanea.

abbiamo definito un sistema di norme di legge e contrattuali a tutela del lavoro essenzialmente su base nazionale; oggi si sono molto ridotti i confini nazionali come barriera per le attività economiche; in particolare il crollo dei regimi socialisti dopo l’89 ha esposto il lavoro alla concorrenza di persone edotte alla attività industriali e disposte ad accettare retribuzioni ben inferiori alle nostre

prima vendere i prodotti era meno incerto, oggi occorre fare molta più attenzione a vendere i beni e servizi; quando la produzione di beni e servizi è destinata ad una clientela abbastanza stabile fermarla con una lotta sindacale non espone a grossi rischi, ma quando questa azione può portare a favorire la concorrenza con forti danni all’azienda le azioni di lotta diventano più delicate

il lavoro opera sull’economia reale, ma quando diventa più profittevole, se pur rischiosa, la finanza, il lavoro perde di potere contrattuale rispetto ad un capitale estremamente mobile ed orientato al massimo profitto per l’azionista; tutti gli altri stakeholders passano nettamente in secondo piano.

Si intrecciano fattori di ambito politico e culturale nella crescita di

qui abbiamo una situazione ambivalente; ho usato il termine individualizzazione e non individualismo per cercare di depurarlo un po’ dal connotato negativo; il poter esprimere la diversità come singoli ci piace molto, ma ci crea problemi quella altrui; per il sindacato la ridotta omogeneità dei lavoratori è una complicazione in più, richiede molta più attenzione alle specificità personali e a singoli problemi.

Questo rende ancor meno applicabile alla attività sindacale la disintermediazione che ha successo nelle attività commerciali; mediare è fare sintesi fra esigenze di persone diverse e comunque ottenerne il consenso; è un processo complesso che non si può risolvere con dei “mi piace”; pensate che un condominio sarebbe governabile senza amministratore e assemblee ma con un semplice gruppo su face book? Non credo,

Infine una osservazione sugli intermediari: avete notato che i gruppi multinazionali più ricchi e potenti di recente formazione sono proprio degli intermediari? Pensate a facebook, intermediario per relazioni personali, google intermediario su informazioni, booking per le prenotazioni alberghiere ecc. ecc.

il lavoro è stata la questione sociale centrale per circa un secolo, fra la fine dell’ottocento all’ultimo quarto del novecento; era il criterio discriminante dell’arco politico. In Europa si collocava a sinistra chi riteneva che il lavoro dipendente dovesse avere più potere e soldi, si collocava a destra chi invece riteneva che fosse da tenere sotto controllo; al centro chi cercava un equilibrio fra le due tendenze.

Dagli anni ottanta non sono sorte forze politiche che abbiano messo come fulcro del loro programma il lavoro; se guardiamo alle formazioni politiche emerse da oltre trenta anni a questa parte vediamo ambiente, onestà, caccia, pensionati, immigrazione, sicurezza, federalismo, … temi di cui non si può negare l’importanza, ma senza dubbio riducono la rilevanza della questione “lavoro”.

Un buon esempio è anche la pastorale sociale e del lavoro. Prima ha accolto la giustizia e pace, poi la tutela del creato; niente da ridire su questo processo, ma è evidente che il lavoro ha perso l’egemonia del passato.

            (tasse-spesa pubblica-welfare-occupazione)

È stato il modello di sviluppo e di regolazione sociale che ha governato l’occidente tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni ottanta. In parte è vittima del suo successo: raggiunti certi risultati si è pensato che fossero intangibili e la parola d’ordine della riduzione delle tasse ha trovato larghi consensi, pur beneficiando soprattutto i più ricchi[1]. Ovviamente il rapporto fra gli elementi del paradigma cambia da paese a paese e anche all’interno dello stesso paese, come il nostro; Svezia e Italia, Friuli Venezia Giulia, Toscana o Campania presentano situazioni diverse per il welfare. Il welfare resta un importante elemento di consenso politico e la soluzione più apprezzata nel nostro paese è stata rinviare il conto al futuro attraverso il debito pubblico.

Ma torniamo sulla globalizzazione. È un fattore ambivalente, problema e opportunità allo stesso tempo. Da un lato espone alla concorrenza di soggetti lontani e sconosciuti, difficili da prevedere. Dall’altro è espressione del fatto che è più facile operare su scala mondiale, ottenere subforniture, raggiungere clienti.

Tutto sommato l’economia italiana si posiziona ancora bene.

Vediamo tre dati: popolazione, pil, quota del commercio globale. Il nostro paese ha lo 0,87% della popolazione mondiale, ma la quota di Pil è quasi tripla: 2,4%. E questo grazie soprattutto alla capacità di esportazione delle nostre imprese, infatti la quota delle esportazioni italiane sul totale globale è il 3,3%.

Siamo ancora forti esportatori, i nostri beni e servizi sono apprezzati e lo sono dalla fascia alta del mercato; il marchio Italia gode di una reputazione che altri paesi invidiano.

La situazione non è facile, specie per il lavoro.

La concorrenza è forte e vicina, non nella Cina, che oggi decentra perché nelle aree costiere il costo del lavoro è divenuto troppo elevato, ma in Europa.

Per avere una idea delle differenze sul costo del lavoro possiamo ricorrere ad un confronto sul salario minimo di legge[2]. In Italia non c’è, compensato dalle tabelle dei contratti nazionali. È presente in molti paesi sì e ci mostra un interessante quadro comparativo. A parte la Slovenia i paesi ex socialisti sono nella fascia più bassa. Non sono paesi distanti. È facile trasferire da loro le imprese e se vogliamo mantenere una retribuzione e quindi un costo del lavoro elevato il nostro lavoro deve avere qualità che compensino questa differenza.

È facile cadere nel pessimismo. Guardate questa scritta, l’ho trovata un paio di settimane fa sul sole 24 ore: «Siamo precipitati in tempi orribili; il mondo è diventato troppo decadente e malvagio; i governanti sono sempre più corrotti; i giovani non rispettano più i loro genitori»

Riporta una iscrizione caldea di circa tremila anni fa.

L’idea che il passato fosse migliore ha radici profonde nell’umanità.

Cerchiamo invece di guardare avanti.

Una attività fondamentale del sindacato è la contrattazione collettiva.

Affinché si realizzi la contrattazione collettiva deve essere considerata conveniente dalle parti in causa, da tutte le parti. E la contrattazione collettiva può essere conveniente in due modi. Un primo modo è quando il costo mancato accordo è maggiore del costo accordo. Era ed è la via tradizionale a sostegno della contrattazione. Con lotte e mobilitazioni si rende costoso evitarla, si spinge così la parte datoriale verso la trattativa e l’accordo.

Una diversa strategia, che è sempre esistita, ma tende a divenire più rilevante oggi è rendere l’accordo più vantaggioso della sua mancanza. Far si che l’accordo offra benefici in termini di produttività, capacità di dare una risposta tempestiva e qualificata alla domanda. In passato il sindacato ha basato la sua forza specialmente nel primo modo, oggi dobbiamo privilegiare il secondo.

Le domande che un dirigente sindacale deve farsi nell’impostare la sua strategia negoziale sono: la controparte teme dei danni per mancato accordo? Percepisce la possibilità di benefici grazie all’accordo? Se la risposta è no ad entrambe il potere contrattuale è nullo e occorre rivedere posizioni e strategia.

Ma non basta. Occorre una attività costante di comunicazione verso i lavoratori e la pubblica opinione per rendere visibile l’utilità della contrattazione attraverso la divulgazione dei suoi obiettivi, processi e risultati.

Occorre oggi una particolare attenzione nel rendere effettivamente fruibili i suoi risultati attraverso attività di servizio che permettano ai lavoratori di godere dei vantaggi ottenuti in relazione a loro interessi, preferenze e bisogni.

Quindi non si tratta di deprecare e combattere a priori quei processi di individualizzazione che abbiamo detto in precedenza, ma inserirli nei processi collettivi di rappresentanza e contrattazione, mostrarne la compatibilità e il reciproco sostegno.

Infine la strada che ritengo vantaggiosa per tutte le parti in causa è combinare contrattazione e partecipazione.

La partecipazione è uno degli elementi principali della visione strategica della Cisl da decenni. Resta la stella polare della nostra azione sindacale.

Voi direte: “deve dire così, è della Cisl”.

Guardate, ne sono davvero convinto,

In fondo si tratta di sostenere e diffondere le migliori pratiche di relazioni fra datori di lavoro, direzioni aziendali e dipendenti a tutti i livelli e dimensioni aziendali riconoscersi e rispettarsi nei reciproci ruoli.

È un processo allo stesso tempo economico, politico e soprattutto culturalee come tutti i processi culturali richiede tempo e impegno.

Voglio concludere con una affermazione del tutto personale, non ascrivibile alle posizioni della mia organizzazione. Schematicamente ritengo che con la contrattazione collettiva si debbano raggiungere accordi su due aspetti: superare l’antagonismo fra adesione sindacale e coinvolgimento aziendale dei lavoratori e formalizzare obbligo di informazione consultazione dei lavoratori superando la visione che la partecipazione dei lavoratori è legittima esclusivamente tramite rappresentanza sindacale.

È difficile che quello che si fa bene insieme si faccia meglio da soli.

È un proverbio cinese, credo si possa applicare anche in Europa. Grazie

 

Progressività aliquote

Nel 1973 venne emanata una riforma fiscale che istituiva l'imposta sul reddito delle persone fisiche abolendo quelle precedentemente fissate.

La norma istituiva ben 32 aliquote che andavano dal 10% al 72%, ripartite su scaglioni che partivano da 2 milioni fino a 500 milioni di lire, corrispondenti a circa 15.000 euro per il primo scaglione (che quindi oggi pagherebbe una aliquota del 10% di imposta) e circa 3,7 milioni sarebbe la soglia di reddito a cui scatterebbe l’aliquota massima del 72%.

Con il Decreto Legge 30 dicembre 1982, n. 953, scaglioni e aliquote furono drasticamente ridotti (da 32 a 9). Una successiva variazione fu apportata nel 1986, ma durò solo un anno in quanto venne approvato il D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986. Scaglioni di reddito e aliquote furono rideterminati riducendone ulteriormente il numero a 5.

Le cinque aliquote Irpef attuali vanno dal 23% per i redditi fino a 15.000 euro al 43% per la quota superiore a 75.000

LIVELLI NOMINALI DELLE RETRIBUZIONI MINIME OVE STABILITE PER LEGGE

Fonte: https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef18005en.pdf

 

[1] Vedi allegato sulle modifiche alla progressività delle aliquote.

[2] Vedi tabella allegata dei valori nominali dei salari minimi di legge.

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