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Saggi e Articoli

La globalizzazione fra tecnologia e politica

Luigi Lama, intervento al congresso FIM CISL di Firenze, 2 marzo 2009

La crisi finanziaria del 2008 e la recessione attuale interrompono un lungo periodo di crescita complessiva a livello globale che durava dal 1982. Quasi trenta anni in cui si è affermata una parola prima sconosciuta: globalizzazione.

Ma cos’è la globalizzazione? Gli studiosi d’economia la definiscono «l’interdipendenza diretta su scala mondiale fra le azioni e le posizioni di soggetti economici situati in un paese con le azioni e le posizioni di soggetti economici, conosciuti e non, situati in altri paesi del mondo». Sappiamo che movimenti di persone e dei loro prodotti ci sono sempre stati, ma mai come oggi capaci di coprire l’intero pianeta in modo così rapido.

Due fattori hanno portato alla situazione attuale: tecnologia e politica.

Vediamo la politica, dove abbiamo l’ambizione di incidere. La scelta politica è stata rimuovere sempre più le restrizioni commerciali e i vincoli e controlli sul trasferimento di capitali. Scelta incoraggiata e sostenuta dalle organizzazioni economiche internazionali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e l’OCSE. Poi il crollo dei regimi socialisti venti anni fa ha riunificato il mondo in un solo mercato.

C’è un'altra caratteristica degli orientamenti di politica economica dall’ultimo quarto di secolo. Quale pericolo ci è sempre stato presentato? L’inflazione, l’aumento generalizzato dei prezzi. È davvero un problema. Specialmente per i lavoratori, e ancor più per quelli di settori esposti alla concorrenza mondiale come i metalmeccanici. Crea differenze e sposta i redditi fra chi può determinare i prezzi e chi li deve subire, o al massimo può cercare di inseguirli.

I fattori di inflazione sono stati individuati nella spesa pubblica e nella mancanza di concorrenza. Quindi hanno trovato consenso politiche per privatizzare le imprese pubbliche, eliminare gli aiuti pubblici alle imprese. La crescita economica considerata frutto non di scelte politiche ma soprattutto o solo della libertà di iniziativa nei mercati. Quindi eliminare regole e aprire alla concorrenza interna e internazionale (in realtà limitato dall’influenza di varie lobby sui legislatori), libertà nei cambi delle monete, la flessibilità nel mercato del lavoro.

Le politiche di ultimi decenni hanno puntato sul versante dell’offerta

1. a rendere più flessibile l’offerta di beni e servizi, affinché potesse adattarsi ai cambiamenti della domanda,

2. a ridurre i costi di produzione per poter fare prezzi competitivi nei settori maggiormente esposti alla concorrenza e aumentare i margini di profitto

Sul versante della domanda le politiche economiche hanno puntato a mantenerla elevata in due maniere:

A ampliando il credito ai consumi, cosa che ha spinto a destinare a consumi non solo i redditi presenti ma anche quelli presupposti futuri

B suscitando un “effetto ricchezza” con la crescita del valore nominale di patrimoni immobiliari e mobiliari (azioni, obbligazioni).

Queste politiche hanno avuto alcuni elementi positivi, ma anche conseguenze sociali negative: impatto sull’occupazione, sul welfare, su alcune forme di tutela del lavoro. Ecco che il sindacato è stato considerato un ostacolo per la sua capacità di organizzare la resistenza ad esse, rallentandole o riducendone la portata. Come affrontare l’ostacolo “sindacato”? In alcuni casi si è scelta la via del confronto e dell’accordo, in altri lo scontro per abbatterne definitivamente la forza. In Europa ha prevalso la prima opzione, ma il governo Thatcher è un classico esempio di successo della seconda strada, quella dello scontro volto a rendere incapace di reagire il sindacato.

Abbiamo visto le politiche che hanno accompagnato e favorito la globalizzazione, ma vediamo come si è realizzata.

Gli economisti distinguono due forme di globalizzazione: la globalizzazione superficiale e la globalizzazione profonda. Quella superficiale i mercati. Quella profonda è l’integrazione realizzata dalle imprese che fanno investimenti diretti all’estero e quindi assumono una dimensione transnazionale. Il Fondo Monetario Internazionale definisce “diretti” quegli investimenti volti a stabilire tra l’imprenditore e l’impresa oggetto dell’investimento un legame economico durevole e permettono all’investitore di esercitare un grado di influenza significativo nella gestione dell’impresa. In questo modo l’azienda ha almeno due gambe, una in un paese e una in altro.

La distinzione fra globalizzazione superficiale e profonda è importante perché rappresenta la scelta fra “fare” o “comprare”, due cose che hanno implicano un impegno organizzativo e temporale ben diverso.

Per un paese essere destinatario dell’investimento diretto può comportare vantaggi: accedere ai mercati esteri dove saranno esportati i prodotti, acquisire nuove tecnologie, conoscenze e formazione. Invece non si possono costruire fabbriche con capitali a breve, liberi di essere ritirati da un giorno all’altro. La mobilità è il criterio di distinzione fra investimenti diretti e investimenti a breve termine, facili da liquidare. Gli investimenti a breve, come titoli di stato, azioni, depositi bancari, sono facilmente convertibili in contante. Anche con un semplice comando sulla tastiera del computer. Il mercato dei titoli finanziari è globalizzazione superficiale, ma abbiamo visto che non ha cero un impatto lieve sull’economia.

Quindi che i capitali possono essere distinti in base alla loro mobilità. Con lo stesso criterio possiamo esaminare sommariamente la globalizzazione riguardo ad altri tre tipi di mercati: beni, servizi e lavoro.

Le merci sono vincolate alla loro concretezza. Per spostare un container non basta battere i tasti di un computer. Peso e volume si ripercutono si modalità e costi di trasferimento. L’evoluzione della logistica in costi, rapidità, affidabilità ha moltiplicato la circolazione delle merci nel mondo, ma non come i capitali.

Questo per le merci. I servizi a differenza delle merci non sono materiali, fisicamente tangibili; sono il risultato dell’interazione fra fornitore e cliente. C’è sincronia fra domanda e prestazione. Servire un pasto, sorvegliare, curare un malato, pulire un locale sono cose che non si possono produrre e riporre in magazzino. Ma anche in questo caso lo sviluppo tecnologico ha aiutato la globalizzazione.

Ad esempio collegando istantaneamente domanda e offerta distanti migliaia di chilometri. Così l’India è divenuta sede di call center per i paesi di lingua inglese, con i lavoratori che seguono il calendario ed il fuso orario del paese “cliente”. I servizi amministrativi che consistono nell’elaborazione e trasferimenti di dati possono essere dislocati in qualsiasi parte del mondo collegata dalla rete telematica.

Oppure si spostano i clienti: quando pensiamo alle vacanze, specie a quelle importanti come i viaggi di nozze anche gli operai metalmeccanici italiani aprono l’atlante e confrontano destinazioni di tutto il mondo, con costi paragonabili o più vantaggiosi di quelli locali.

O ancora si possono far venire i lavoratori da noi ad offrire i loro servizi a buon mercato. All’inizio c’erano solo i “filippini” delle famiglie ricche. Oggi le badanti hanno trasformato in datori di lavoro “proletari” che non l’avrebbero mai immaginato e talvolta non se ne rendono conto.

Eccoci quindi ad un punto cruciale: l’impatto sul mercato del lavoro nazionale di lavoratori o aspiranti tali provenienti da tutto il mondo. Il mercato del lavoro non è fatto da cose né materiali né immateriali. È fatto da persone. Molto più complicate delle cose. Se trasportate con poca cura possono giungere a destinazione gravemente deteriorate. E hanno bisogno di vitto e alloggio. Spesso parlano una lingua e non comprendono le altre. Hanno usi e costumi propri. E poi relazioni affettive che le legano ad altre persone. Insomma difficili da trasportare e allocare.

Pensiamo invece ai capitali. Per loro è facile correre da un posto all’altro, stare un po’ qui e poi via altrove. Le persone no. Si muovono se sperano di trovare condizioni molto migliori per cui valga la pena affrontare tutti i problemi che comporta spostarsi. La globalizzazione mette il lavoro in uno svantaggio strutturale nella competizione con il capitale. Ma offre a masse di lavoratori speranze prima inesistenti. Nel loro paese come produttori di beni e servizi destinati all’esportazione verso mercati che l’integrazione globale ha reso raggiungibili. Come migranti alla ricerca di migliori acquirenti del loro lavoro, di una speranza di pace e benessere per se o per i propri figli.

Questo squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro rende molto più difficile il lavoro del sindacato. Quante volte ci dicono che «il sindacato non è più quello di una volta». È proprio vero. Oggi c’è uno svantaggio con il capitale che non c’era quando l’economia era essenzialmente nazionale. C’è uno sgretolamento dei confini che indebolisce le norme nazionali, moltiplica le possibilità di scelta per le imprese e mette direttamente in competizione sistemi legislativi e contrattuali di paesi diversi. Mette in concorrenza diretta lavoratori, specialmente quelli delle fasce più deboli del mercato, più bisognose di tutela. I disastri della speculazione finanziaria hanno mostrato quanto fosse fole e pericolosa una economia di mercato senza regole. Oggi i fatti ci danno ragione nel dire: globalizzazione sì, ma con regole a tutela delle persone e dell’ambiente.

Questa è la risposta sindacale alla crisi finanziaria: la finanza è uno strumento indispensabile per il funzionamento dell’economia reale che deve essere al servizio delle persone, non il contrario. Non usare le illusioni per arricchire i furbi ma controllare i movimenti finanziari, la qualità dei prodotti finanziari (che possono essere tossici quanto alimenti avariati) e orientarli al servizio dell’economia reale.

È importante tenere presente sia la dimensione tecnologica che quella politica della globalizzazione. La seconda regola i percorsi che la prima rende possibili. Nessuna delle due può prescindere dall’altra. Creare barriere normative che possono facilmente essere ignorate nella realtà ci fra rischiare che le violazioni siano tali e tante da non poterle impedire e rendere inutile la norma e ridicola l’attività normativa.

Non rinunciare a governare, non rinunciamo alla politica: significa lasciare libero campo alla legge del più forte. E nel cercare di influire sul “governo” occorre tenere presente che si confrontano interessi, che occorre dare forza alla ragione, che non ce l’ha di per sé. Il sindacato nasce dalla volontà di dare forza alle ragioni di chi è economicamente più debole. Serve ancora.

L’interdipendenza restringe le possibilità di azione a livello nazionale e spinge verso la cooperazione internazionale. Una cosa difficile. Ognuno ha ben presenti i propri interessi, o meglio i governi sono spinti da lobby settoriali o di grandi imprese. Qui il sindacato può giocare una partita importante. Anche il lavoro non è esente da contraddizioni. Lo abbiamo visto di recente nella vicenda dei lavoratori italiani in Gran Bretagna. Ma il suo essere legato alle persone, alla loro vita gli lo spinge verso una attenzione verso aspetti che gli altri fattori economici trascurano. Fare sindacato è difficile, ma è necessario perché si possa vivere una vita dignitosa in Italia e nel mondo. La globalizzazione ci aiuta in questo.

Anche gli effetti positivi si possono diffondere. Possiamo davvero rendere un po’ più civile il mondo. Vale la pena di fare sindacato.

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